DI MADRI, FIGLI E INTERNET

A trent’anni il nostro riferimento esistenziale erano le quattro tipe di Sex and the City che sorseggiavano Moscow mule parlando di uomini.

A sessanta ci ritroviamo alle nove di mattina con le amiche davanti al cappuccino del bar a lamentarci di quanto i nostri figli ci trattino da deficienti perché non sappiamo (secondo loro) usare l’internet.

Invecchiare non è solo avere un collo pieno di rughe, è anche avere un gap tecnologico che sembra irrecuperabile, ma è più facile contrastare le rughe con costanza e buone creme che non imparare a usare bene Internet come vorremmo.

Senza contare che – in un paese di anziani ancora ignari che si possa saltare la coda in posta facendo una prenotazione on line – chi è in grado di andare sul sito dell’INPS per controllare i contributi, utilizza normalmente lo SPID e paga quasi tutto usando il telefono si sente molto, ma moooolto avanti.

I millenial che abbiamo cresciuto si spazientiscono non poco se, all’età in cui le nostre madri avevano già tirato i remi in barca, non riusciamo a caricare la fotografia per il controllo facciale o a prenotare on line un particolare tipo di esame che il medico ci ha richiesto. Ma anche solo se non lo sappiamo fare alla velocità con cui loro fanno sfrecciare i pollici sullo schermo. E non parliamo delle critiche ai nostri codici di sblocco del telefono…

Per tutto c’è una app, e per ogni app che ti semplifica (forse) la vita c’è una password complicata da ricordare. È veramente chiedere troppo a chi non riesce a ricordare nemmeno il cognome del vicino di casa se non lo sbircia sul campanello, per non parlare dei titoli – di film, libri, canzoni – o del nome di attori e cantanti (io per esempio non ricordo mai il nome di quell’attore belloccio che balla indossando orologi lussuosi).

La faccenda delle password per noi di ormai scarsa memoria poi è già abbastanza surreale di per sé: per crearne una efficace dobbiamo pensarla con un minimo di lettere, una sequenza di numeri che però non sia la nostra data di nascita né quella dei nostri figli (che sono le uniche che ricordiamo, mente quella del matrimonio l’abbiamo nel migliore dei casi rimossa), aggiungere una o più maiuscole e possibilmente inserire a cazzo un segno astruso. Solo che poi ce la scriviamo su un foglietto dove le abbiamo riportate tutte insieme per non dimenticarle e il foglietto lo lasciamo in bella vista nel primo cassetto della scrivania o del comò, così sappiamo sempre dov’è. Probabilmente lo sanno anche i ladri di identità.

Questa storia del foglietto delle password ai figli non va proprio giù, la ritengono imbarazzante o meglio: cringe. Il che pare sia peggio che conoscere a memoria le canzoni di Julio Iglesias o citare Fantozzi.

D’altronde l’alternativa sarebbe quella di procedere per tentativi e dato che alla terza password sbagliata ci possono essere spiacevoli conseguenze, tanto vale fregarsene dei loro occhi al cielo e sfoderare il famigerato elenco.

Forse basterebbe copiare la meravigliosa idea di una coetanea che all’ennesima richiesta di cambio password da parte dell’ennesima app digitava imperterrita: lasolita1234# Pare funzioni.

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